Nel cuore devastato di una città distrutta, dove il fumo si mescola alla polvere e i palazzi non sono che scheletri anneriti, siede un cane. Ha lo sguardo rivolto verso chi guarda, dolce e silenzioso. Tra i denti, tiene il suo guinzaglio: come un gesto di speranza, o forse di attesa. Un invito muto a tornare, rivolto a un padrone che probabilmente non tornerà mai.
Questa immagine parla di tutte le vittime dimenticate della guerra. Non solo gli umani, ma anche gli animali: esseri senzienti, compagni di vita, troppo spesso ignorati dal racconto della tragedia. La guerra non li considera. Non li protegge. Non li piange.
Eppure loro restano. Restano a vegliare tra le macerie. Restano ad aspettare, con quella fedeltà che nessuna bomba riesce a spegnere. Il cane, in questo scenario apocalittico, non è solo un simbolo di abbandono: è un monumento vivente alla lealtà, al legame indissolubile che esiste tra specie diverse, alla sofferenza silenziosa che merita di essere ascoltata.
L’opera è un grido contro l’indifferenza. Ricorda che in ogni guerra, accanto al dolore umano, c’è anche quello degli animali: invisibile, ma profondissimo. E che la vera civiltà inizia quando impariamo a considerare anche il loro dolore, anche il loro amore, anche la loro attesa.


